1882 – BANCA MUTUA POPOLARE DEL MANDAMENTO DI MASSERANO
Costituzione: 1881
Codice ISMIN: 30856
Banca storica della provincia di Biella. Certificato nominativo comulativo per 20 azioni da 50 Lire ciascusa. Masserano 14 settembre 1882. Magnifica cornice arrichita da fregi e decori in cui spiccano vignette, personaggi simbolici e lo stemma comunale con una mano armata di scimitarra. La banca fu autorizzata all'esercizio con Regio Decreto 21 aprile 1881, rappresentando così la terza Popolare del Biellese dopo la Banca Popolare di Biella e la Banca Mutua Popolare della Valle. Forse per le caratteristiche intrinseche o per l'incapacità degli amministratori, la banca venne dichiarata fallita nel 1895.
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Banca storica della provincia di Biella. Certificato nominativo comulativo per 20 azioni da 50 Lire ciascusa. Masserano 14 settembre 1882. Magnifica cornice arrichita da fregi e decori in cui spiccano vignette, personaggi simbolici e lo stemma comunale con una mano armata di scimitarra. La banca fu autorizzata all’esercizio con Regio Decreto 21 aprile 1881, rappresentando così la terza Popolare del Biellese dopo la Banca Popolare di Biella e la Banca Mutua Popolare della Valle. Forse per le caratteristiche intrinseche o per l’incapacità degli amministratori, la banca venne dichiarata fallita nel 1895.
Le Popolari biellesi storie di banche di fine Ottocento
Il termine “popolare” qualifica, o dovrebbe qualificare, ciò che attiene al popolo, ciò che, nel bene e nel male, è proprio della gente comune. Allo stesso tempo designa ciò che è noto a tutti, ciò che gode di buona fama. In questo senso, se oggi c’è qualcosa di poco popolare è una… banca popolare, la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, meglio conosciuta come Banca Etruria. Salita agli onori della cronaca per le sue performance finanziarie non certo da encomio solenne e subito scelta come esempio e/o simbolo dell’ennesimo (ancorché presunto) pasticciaccio brutto tra politici di debito e istituti di credito, Banca Etruria rappresenta solo uno (e non l’ultimo di sicuro) di una lunga serie di sfortunati eventi che hanno segnato il più che secolare destino delle banche popolari. In questa Europa bancocrate ma paradossalmente povera di futuro, la tradizione creditizia italiana, la più antica e fulgida di tutte, non è più quella della Rinascenza fiorentina o lombarda. Adesso sono Bruxelles e Francoforte ad avere il caveau dalla parte del manico. In ogni caso, alla scuola delle banche popolari, la lezione la sanno meglio i tedeschi, visto che le hanno inventate loro. Vero è che gli italiani e i biellesi furono studenti volenterosi e si applicarono molto, ma non sempre con profitto. Tant’è che, come si è detto, non tutte le popolari nate nel Belpaese ebbero vita facile né longeva, anzi. E da queste parti, dove di banche qualcosa malgrado tutto ce ne intendiamo, non abbiamo fatto eccezione: le banche popolari nostrane sono state un vero disastro e non sono mancati episodi di vera e propria criminalità, tra fallimenti e frodi. Il che è, in qualche misura, rassicurante: la prospettiva storica svela corsi e ricorsi che attestano, se non altro, la sopravvivenza. Supereremo anche la vicenda di Banca Etruria: i giornali smetteranno di parlarne e a rammentarsene saranno solo coloro che hanno perso i loro soldi. Come al solito, però, l’attualità non è di queste colonne. Veniamo quindi al Biellese del passato, dove le banche (non solo le popolari) spuntavano come funghi.
L’humus dell’ultimo Ottocento era quello dell’industria in piena espansione e la finanza doveva supportare la fabbrica (caso a sé la Cassa di Risparmio di mons. Losana con la sua mission antietilista e social-previdenziale). La prima banca popolare italiana fu quella di Lodi, nata nel 1864 e ci vollero tre lustri prima che anche nel Biellese si aprisse il primo sportello di una popolare, ma nel periodo 1878-1882 ben quattro furono gli istituti analoghi avviati in città e nelle vallate. Se fu Luigi Luzzatti ad aver importato nel Regno d’Italia il modello teutonico delle volksbanken di Franz Hermann Schulze-Delitzsch, si deve a Quintino Sella la spinta ideale impressa a livello locale per la costituzione di organizzazioni di quel tipo. La prima fu la Banca Popolare di Biella, attivata in via Maestra 12 a partire dal 6 agosto 1878 (capitale sociale di 292.150 lire). Nell’ottobre del 1880 fu approvato lo statuto della Banca Mutua Popolare della Valle (costituita il 22 marzo 1881, capitale sociale 100.000 lire) con sede in Campiglia Cervo e succursale in Andorno Cacciorna. Con Regio Decreto 21 aprile 1881 fu autorizzato l’esercizio della Banca Mutua Popolare del Mandamento di Masserano (capitale sociale 40.000 lire). Il 13 maggio 1882 nacque la Banca Mutua Popolare del Mandamento di Mosso con sede a Mosso Santa Maria (capitale sociale 100.000 lire). Un fenomeno così capillare e virale nella sua diffusione territoriale potrebbe indurre a credere che la “Svizzera biellese” non fosse soltanto una didascalia per le cartoline postali. Ma la Valle Cervo, la Vallestrona, l’area di Masserano e la stessa Biella erano davvero così rigogliose dal punto di vista economico da mutuare il senso di un cliché paesaggistico? Nel 1895 gran parte di quella apparente floridezza era già scomparsa.
Tre di quelle quattro popolari erano già liquidate e non senza strascichi giudiziari. Per sapere come si chiuse l’esperienza di quella di Campiglia Cervo basta leggere “Fine ingloriosa di una banca dell’Alta Valle”, l’esaustivo articolo di Gianni Valz Blin pubblicato sulla “Rivista Biellese” dell’ottobre 2001. Per le altre la storia è ancora in buona parte da scrivere, ma alcuni tratti si possono delineare fin d’ora. Forse le caratteristiche intrinseche di quelle istituzioni o l’incapacità degli amministratori o la rapacità dei dirigenti ne minavano alla base l’effettiva possibilità di rimanere attive. Di per sé i bilanci dei primi esercizi mostravano rischi contenuti e dividendi promettenti. I dati disponibili per la banca masseranese, per esempio, sono eloquenti. Il capitale iniziale era ripartito in 800 azioni da 50 lire ciascuna. Nel rendiconto del secondo anno di attività, presentato nell’adunanza generale degli azionisti dell’11 febbraio 1883, a fronte di un “giro di cassa” di più di 2 milioni e 800 mila lire, gli utili netti superarono le 6.800 lire. Dodici mesi dopo la situazione era invariata: ancora un saldo attivo superiore alle 6.800 lire. Gli azionisti non potevano criticare l’operato del presidente cav. Secondo Parpaglione, del contabile Costantino Buratti e del direttore avv. Giletti, ma i margini di profitto non furono poi quelli attesi. Le operazioni si fecero via via meno consistenti e, dopo poco più di un decennio, l’azionariato si rese conto che non era più conveniente proseguire. I legami con la “consorella” di Biella, peraltro attestati già nelle prime relazioni del CdA, si fecero ancora più stretti proprio alla fine e con risvolti grotteschi.
Nel giugno 1895 la fallita Banca Popolare di Biella non fu in grado di procedere nella liquidazione di quella di Masserano. La più grande e più vecchia delle popolari biellesi, cioè quella cittadina, ebbe in effetti una sorte triste che, per molti aspetti, la assimila a quella di Campiglia Cervo. Il 31 gennaio 1898 la Corte di Cassazione di Torino rigettava il ricorso della Banca Popolare di Biella chiudendo una vertenza che si protraeva da tre anni, cioè dalla cessazione dell’operatività della banca. Sul finire di aprile del 1897 la Corte d’Appello di Torino aveva condannato gli amministratori e i dirigenti per bancarotta semplice e fraudolenta. Il direttore Emanuele Cavalli e l’amministratore Filiberto Serra ebbero la peggio: due anni e mezzo di reclusione, con tre mesi di riduzione di pena per amnistia in corso. Gaspare Piana e Giuseppe Varale si presero cinque mesi a testa, amnistiati a due. Più sfumate le responsabilità del cav. Luigi Trompeo e del dott. Giovanni Battista Bona. Nel crack erano implicati anche il cav. Gaetano Stallo e il farmacista cav. Giuseppe Masserano, ma le loro posizioni furono stralciate (il secondo morì nel frattempo). Se agli altri fu contestata la scarsa vigilanza, al Cavalli e al Serra furono mosse accuse circostanziate e assai gravi. Avevano, infatti, “sottratto dolosamente (…) in concorso fra di loro ingenti somme a beneficio proprio e a danno dei creditori”, inoltre avevano “firmato falsi bilanci dal 1880 al 1894 per dimostrare proficua la condizione della Banca da essi amministrata e diretta, distribuendo dividendi fittizi agli azionisti, con diminuzione del capitale sociale”.
Niente male, non c’è che dire. Una vera e propria associazione per delinquere di due truffatori senza scrupoli: quindici anni di falso in bilancio pianificato finalizzato al furto. Dalla cassaforte mancavano 60.000 lire e una mezza dozzina di creditori, quelli che non si erano accontentati di un risarcimento parziale, poté assistere alle udienze dove andò in scena il peggior repertorio dei “non ricordo” e degli scaricabarile. Stando alla stampa piemontese che seguì il processo con interesse, il Serra “che ebbe fidi per oltre centomila lire e che fallì con la Banca” non seppe fornire spiegazioni per quanto avvenuto, ma risultò assodato che “egli rinnovava certe cambiali senza nemmeno pagare la carta delle cambiali”. Passò l’annus horribilis 1895 soltanto la Popolare di Mosso che chiuse i battenti in modo migliore rispetto alle tre omologhe di cui sopra (fu assorbita dalla Popolare di Novara nel 1910). In ogni caso, anche in questo campo, il presente e il futuro non ci riservano nulla di nuovo. Purtroppo o per fortuna, però, la nostra disposizione alla indignazione per fatti contingenti è direttamente proporzionale alla nostra facoltà di dimenticare in fretta.
Il termine “popolare” qualifica, o dovrebbe qualificare, ciò che attiene al popolo, ciò che, nel bene e nel male, è proprio della gente comune. Allo stesso tempo designa ciò che è noto a tutti, ciò che gode di buona fama. In questo senso, se oggi c’è qualcosa di poco popolare è una… banca popolare, la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, meglio conosciuta come Banca Etruria. Salita agli onori della cronaca per le sue performance finanziarie non certo da encomio solenne e subito scelta come esempio e/o simbolo dell’ennesimo (ancorché presunto) pasticciaccio brutto tra politici di debito e istituti di credito, Banca Etruria rappresenta solo uno (e non l’ultimo di sicuro) di una lunga serie di sfortunati eventi che hanno segnato il più che secolare destino delle banche popolari. In questa Europa bancocrate ma paradossalmente povera di futuro, la tradizione creditizia italiana, la più antica e fulgida di tutte, non è più quella della Rinascenza fiorentina o lombarda. Adesso sono Bruxelles e Francoforte ad avere il caveau dalla parte del manico. In ogni caso, alla scuola delle banche popolari, la lezione la sanno meglio i tedeschi, visto che le hanno inventate loro. Vero è che gli italiani e i biellesi furono studenti volenterosi e si applicarono molto, ma non sempre con profitto. Tant’è che, come si è detto, non tutte le popolari nate nel Belpaese ebbero vita facile né longeva, anzi. E da queste parti, dove di banche qualcosa malgrado tutto ce ne intendiamo, non abbiamo fatto eccezione: le banche popolari nostrane sono state un vero disastro e non sono mancati episodi di vera e propria criminalità, tra fallimenti e frodi. Il che è, in qualche misura, rassicurante: la prospettiva storica svela corsi e ricorsi che attestano, se non altro, la sopravvivenza. Supereremo anche la vicenda di Banca Etruria: i giornali smetteranno di parlarne e a rammentarsene saranno solo coloro che hanno perso i loro soldi. Come al solito, però, l’attualità non è di queste colonne. Veniamo quindi al Biellese del passato, dove le banche (non solo le popolari) spuntavano come funghi.
L’humus dell’ultimo Ottocento era quello dell’industria in piena espansione e la finanza doveva supportare la fabbrica (caso a sé la Cassa di Risparmio di mons. Losana con la sua mission antietilista e social-previdenziale). La prima banca popolare italiana fu quella di Lodi, nata nel 1864 e ci vollero tre lustri prima che anche nel Biellese si aprisse il primo sportello di una popolare, ma nel periodo 1878-1882 ben quattro furono gli istituti analoghi avviati in città e nelle vallate. Se fu Luigi Luzzatti ad aver importato nel Regno d’Italia il modello teutonico delle volksbanken di Franz Hermann Schulze-Delitzsch, si deve a Quintino Sella la spinta ideale impressa a livello locale per la costituzione di organizzazioni di quel tipo. La prima fu la Banca Popolare di Biella, attivata in via Maestra 12 a partire dal 6 agosto 1878 (capitale sociale di 292.150 lire). Nell’ottobre del 1880 fu approvato lo statuto della Banca Mutua Popolare della Valle (costituita il 22 marzo 1881, capitale sociale 100.000 lire) con sede in Campiglia Cervo e succursale in Andorno Cacciorna. Con Regio Decreto 21 aprile 1881 fu autorizzato l’esercizio della Banca Mutua Popolare del Mandamento di Masserano (capitale sociale 40.000 lire). Il 13 maggio 1882 nacque la Banca Mutua Popolare del Mandamento di Mosso con sede a Mosso Santa Maria (capitale sociale 100.000 lire). Un fenomeno così capillare e virale nella sua diffusione territoriale potrebbe indurre a credere che la “Svizzera biellese” non fosse soltanto una didascalia per le cartoline postali. Ma la Valle Cervo, la Vallestrona, l’area di Masserano e la stessa Biella erano davvero così rigogliose dal punto di vista economico da mutuare il senso di un cliché paesaggistico? Nel 1895 gran parte di quella apparente floridezza era già scomparsa.
Tre di quelle quattro popolari erano già liquidate e non senza strascichi giudiziari. Per sapere come si chiuse l’esperienza di quella di Campiglia Cervo basta leggere “Fine ingloriosa di una banca dell’Alta Valle”, l’esaustivo articolo di Gianni Valz Blin pubblicato sulla “Rivista Biellese” dell’ottobre 2001. Per le altre la storia è ancora in buona parte da scrivere, ma alcuni tratti si possono delineare fin d’ora. Forse le caratteristiche intrinseche di quelle istituzioni o l’incapacità degli amministratori o la rapacità dei dirigenti ne minavano alla base l’effettiva possibilità di rimanere attive. Di per sé i bilanci dei primi esercizi mostravano rischi contenuti e dividendi promettenti. I dati disponibili per la banca masseranese, per esempio, sono eloquenti. Il capitale iniziale era ripartito in 800 azioni da 50 lire ciascuna. Nel rendiconto del secondo anno di attività, presentato nell’adunanza generale degli azionisti dell’11 febbraio 1883, a fronte di un “giro di cassa” di più di 2 milioni e 800 mila lire, gli utili netti superarono le 6.800 lire. Dodici mesi dopo la situazione era invariata: ancora un saldo attivo superiore alle 6.800 lire. Gli azionisti non potevano criticare l’operato del presidente cav. Secondo Parpaglione, del contabile Costantino Buratti e del direttore avv. Giletti, ma i margini di profitto non furono poi quelli attesi. Le operazioni si fecero via via meno consistenti e, dopo poco più di un decennio, l’azionariato si rese conto che non era più conveniente proseguire. I legami con la “consorella” di Biella, peraltro attestati già nelle prime relazioni del CdA, si fecero ancora più stretti proprio alla fine e con risvolti grotteschi.
Nel giugno 1895 la fallita Banca Popolare di Biella non fu in grado di procedere nella liquidazione di quella di Masserano. La più grande e più vecchia delle popolari biellesi, cioè quella cittadina, ebbe in effetti una sorte triste che, per molti aspetti, la assimila a quella di Campiglia Cervo. Il 31 gennaio 1898 la Corte di Cassazione di Torino rigettava il ricorso della Banca Popolare di Biella chiudendo una vertenza che si protraeva da tre anni, cioè dalla cessazione dell’operatività della banca. Sul finire di aprile del 1897 la Corte d’Appello di Torino aveva condannato gli amministratori e i dirigenti per bancarotta semplice e fraudolenta. Il direttore Emanuele Cavalli e l’amministratore Filiberto Serra ebbero la peggio: due anni e mezzo di reclusione, con tre mesi di riduzione di pena per amnistia in corso. Gaspare Piana e Giuseppe Varale si presero cinque mesi a testa, amnistiati a due. Più sfumate le responsabilità del cav. Luigi Trompeo e del dott. Giovanni Battista Bona. Nel crack erano implicati anche il cav. Gaetano Stallo e il farmacista cav. Giuseppe Masserano, ma le loro posizioni furono stralciate (il secondo morì nel frattempo). Se agli altri fu contestata la scarsa vigilanza, al Cavalli e al Serra furono mosse accuse circostanziate e assai gravi. Avevano, infatti, “sottratto dolosamente (…) in concorso fra di loro ingenti somme a beneficio proprio e a danno dei creditori”, inoltre avevano “firmato falsi bilanci dal 1880 al 1894 per dimostrare proficua la condizione della Banca da essi amministrata e diretta, distribuendo dividendi fittizi agli azionisti, con diminuzione del capitale sociale”.
Niente male, non c’è che dire. Una vera e propria associazione per delinquere di due truffatori senza scrupoli: quindici anni di falso in bilancio pianificato finalizzato al furto. Dalla cassaforte mancavano 60.000 lire e una mezza dozzina di creditori, quelli che non si erano accontentati di un risarcimento parziale, poté assistere alle udienze dove andò in scena il peggior repertorio dei “non ricordo” e degli scaricabarile. Stando alla stampa piemontese che seguì il processo con interesse, il Serra “che ebbe fidi per oltre centomila lire e che fallì con la Banca” non seppe fornire spiegazioni per quanto avvenuto, ma risultò assodato che “egli rinnovava certe cambiali senza nemmeno pagare la carta delle cambiali”. Passò l’annus horribilis 1895 soltanto la Popolare di Mosso che chiuse i battenti in modo migliore rispetto alle tre omologhe di cui sopra (fu assorbita dalla Popolare di Novara nel 1910). In ogni caso, anche in questo campo, il presente e il futuro non ci riservano nulla di nuovo. Purtroppo o per fortuna, però, la nostra disposizione alla indignazione per fatti contingenti è direttamente proporzionale alla nostra facoltà di dimenticare in fretta.
Danilo Craveia (Fonte Ecodibiella.it)